Categoria: L’Asceta Libertino

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Ho sempre avuto il sospetto che tu non esistessi. Non è la prima volta che mi svanisce un sogno. M’è gai sfumata la nonna e la Befana. Peccato, perché sono consapevole di non meritarti: dunque, per me, saresti
stata un vero affare.
So che sei molto gettonata. Non c’è babbeo che non ti sogni bella, intelligente, piena di energia… quelle che ho conosciuto con questi requisiti erano piuttosto stronze. Giustamente: vendevano cara la tua pelle. Pelle vellutata, da fotomodella: un kit di coca, Ferrari, cambiali; lestofanti con la loro mascella.
Ti ho visto passare una volta su un veliero. Un affronto di alberi, vele, e te in mezzo, come un castigo per i naufraghi. Ma forse eri solo uno spot pubblicitario. Infatti hai cercato subito di rifilarmi un detersivo, con lavatrice inclusa, seconda casa, figli e mutui da pagare.
La famiglia! Un tuo vecchio sogno, che avevi accantonato, da ragazza, quando traghettavi il tuo sorriso tra gloria, successo e semidei. Ricordi? Eri indecisa se offrirti al potere o alla debolezza. Scegliesti quello di più grossa cilindrata. Io ero svagato, allora: ti sognavo. Insomma: non ti meritavo. M’ero guadagnato la tua assenza. Però, tutto sommato, con te, me la godevo. A farne senza.

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C’è una buona notizia per te. La vita si è allungata: ora ti spettano cinquant’anni di gloria e cinquanta di umiliazioni. Potrai dunque, in perfetta lucidità, assistere al fallimento delle tue giunture, alla diserzione dei tuoi capelli, all’affiorare sul volto di una faccia che non ti appartiene e disconosci: la faccia da zio.
Ma non è ancora finita, ti attende l’ultimo effetto speciale: la trasmutazione nell’uomo invisibile.
Cammini sotto i portici, cerchi uno sguardo femminile e vedi solo occhi spenti. Sorridi, ma non ti rispondono. Semplicemente, le donne non ti vedono più. Ti schivano, per non urtarti, come guidate da un radar, come se avvertissero non tanto la tua presenza, ma piuttosto il tuo ingombro. Ti scansano e passano.
Tu resti invisibile e ti volti per vedere se l’ombra, almeno quella, ce l’hai ancora. Per verificare se, pur essendo scomparso come uomo, esisti ancora come persona.

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Invidio le parole.
Perché vivono nei libri.

Quando stai per concepire un libro è una strana sensazione. In realtà, quello che senti dentro non è un libro: è bisogno di chiarezza. Scrivere non è altro che un continuo liberarti di pensieri conformisti alla ricerca di una progressiva verità. Certe volte pare che il cervello s’ingarbugli e, senza l’aiuto del computer, non sia più capace di mettere in ordine le idee.
Che dapprima butti giù, scompostamente, come ce le avevi in testa. Poi lasci che prendano una logica sul video. Senti di viverla, la vita, mentre la descrivi. Non è vita teorica, esercitazione letteraria: è un passaggio obbligato verso la chiarezza. Le logiche, i ragionamenti generali arrivano alla fine. Te li trovi scritti e ti meravigli. Tu che sei il primo lettore di te stesso.
Poi c’è un momento, quando l’opera svela la sua trama… come una ragazza che si sfila la gonna. E le azioni diventano veloci, le mani prendono la febbre. Ogni parola cade a posto, come le tue dita sui suoi fianchi. Ti senti trascinare in una frenesia senza confini, che rischia di non mandarti più a dormire. Notti bianche, intense, d’amore col mistero.
Finito il libro, hai finalmente tutto chiaro: questo è lo stampo in cui sono colati i tuoi pensieri. Come la matrice di una statua in bronzo. Ma l’opera d’arte non sono le parole: è lo scrittore che se n’è volato via.
Il libro ormai è solamente una tessera di storia. E non risulta mai come lo pensavi. E’ un figlio ribelle, sfuggito di controllo. Per fortuna! E’ così che conquista un suo carattere.
Ed è vivo, come il tuo presente, anche se pare in sonno. Ma basta che un lettore lo sfogli, che lui si desta e ti sopravvive.

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Nato lì: era l’identità di quella terra. Genuino come le castagne, schietto come una cipolla. Aveva il sapore di quella collina. Negli occhi, l’azzurro del suo cielo. Nei polmoni l’aria tersa dei monti. Non si era mai mosso. Non ne aveva sentito il bisogno. Lì aveva trovato tutto: presente o sotto metafora.
Camminando, ondeggiava col ritmo dei salici al vento. Era curvo come la montagna e profumava di fuliggine del legno di castagno che ardeva dentro il suo camino. Nella sera, quando rincasava, si stagliava sulla cresta del monte, contro la luce del crepuscolo, e il suo profilo era solo una gobba in più sopra il crinale.
Giulio era un granello di montagna che si muoveva tra i castagni, come una fiaba nel tramonto.

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Per questo, ogni estate torno qui in montagna, nel paesino di mio padre: per tenermi pronto ad una prossima, inevitabile semplificazione. Da vecchio penso infatti di finire qui i miei giorni. Tra gente semplice, schietta, riscoprirò le origini, come chi cerca nuovamente la stazione di partenza per salire sul treno del ritorno.
Lì, nella quiete, avrò nel cuore un rimpianto solo: mi mancheranno i bastardi creativi. Quelli che perdi quando non hai più nulla da farti portar via. Peccato, perché ti stuzzicano la vita, confezionandoti chimere su misura, per farti correre dietro alle loro vanaglorie.
Mi mancheranno i ladri di illusioni, quelli che campano sopra i nostri sogni. Perché vorrà dire che ho trovato il disincanto. Mi mancherà il fragore delle imprese assurde, che animano la nostra giovinezza, e i turbamenti procurati da uno sguardo, su cui fare ricami per la notte.
Ma avrò il sole, a consolarmi ogni mattina, o la pioggia a farmelo rimpiangere. E una valle degli orti silenziosa, per dialogare sulla vita con le sue metafore. Avrò i ricordi ad affumicarmi gli occhi, delle donne che mi hanno un tempo acceso. Avrò gli amici con i quali ho riso, e i soldi in banca che mi sono risparmiato. Ed avrò il vento, che spazzerà via ogni cosa.

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Se ti venisse mai la tentazione di fare il leader politico o l’imprenditore d’assalto o la rock star o il conduttore TV, dovresti inserire una lontana premeditazione nel corso della tua libera esistenza. In pratica, dovresti riscrivere tutti i tuoi ricordi, inzuppandoli di impegni e doveri: un’agenda infinita, di cui essere stato il servitore.
No, non credi ne valesse la pena. Dunque, ti accomodi in poltrona, davanti a un buon libro e ti contenti di essere leader di te stesso, conduttore unico del tuo tempo privato, star di un bizzarro “Grande Fratello” che definiamo “Vita”.
Esci nel silenzio della sera ad ascoltare il rumore dei tuoi passi. C’è fin troppa serenità che fa eco sotto i portici.
Arrivi in piazza. C’è un comizio. Un concerto. Un set televisivo. Troppe luci per non abbarbagliarti un istante. Troppi applausi per non pensare se…
No, basta aspettare: tra due ore farà di nuovo silenzio.
E aspetti: dopo il trambusto, la notte torna padrona della piazza. Non c’è più nessuno sul podio deserto a inebriarsi delle vibrazioni d’illusione. Ti guardi intorno. C’è ancora nell’aria l’alito dei sogni. Sorridi e sali sul palco a fare la tua arringa solitaria:
“Siamo qui riuniti, noi nessuno, per dirci in silenzio che siamo transitati, poche ore prima o poco dopo, sul podio dei grandi. I grandi illusi, quelli che hanno tutto dedicato al nulla. Noi che del nulla siamo i protagonisti. Loro non sanno di aver giocato in casa nostra”.
Sale un applauso silenzioso dal deserto della piazza buia.

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Appena arrivi a New York, ritrovi subito quel gusto di libertà della tua prima volta a Londra. Una allargarsi dell’anima. Qualcosa davvero nuovo e inaspettato. Normalmente i depliant delle agenzie turistiche illustrano perfettamente ogni posto del mondo: vai a Bali dopo averli sfogliati e trovi che tutto corrisponde alla lettera. Puoi confrontare le foto con gli originali e verificare il progresso delle crepe nei templi Barong.
New York invece non la si può illustrare con fotografie. Bisogna viverci. Se ci riesci, senti uno spirito di libertà dove non sei mai vecchio per fare. Ritrovi l’energia dei vent’anni e ringrazi il cielo di esserci. New York insomma, è una specie di Londra per adulti.
Ogni città chiama i suoi abitanti. Milano, ad esempio, chiama quegli italiani che stavano per morire di soffocamento nelle loro città di provincia. New York chiama quelli che si sentivano soffocare anche a Milano. E’ il più grande centro di rianimazione del mondo. Sei morto, e a New York ti ridanno la vita. Scopri che è bello vivere per se stessi. Senza confronti con i vecchi compagni di scuola, quelli che hanno sposato la tua vicina di casa e se la fanno di nascosto con la moglie del tuo notaio.
New York ti stimola ma non ti protegge, una donna che si rifiuta di fare la mamma: ti lascia solo sul marciapiede, per crescere. La piccola città ti dà l’illusione di essere qualcuno. Assomiglia a una famiglia: nella piccola cerchia ci si sente grandi. Ma la città non è una famiglia: non è fatta di fratelli, è fatta di cugini. Amore non c’è, lo si finge: c’è solo confronto. Ci si misura stretto sotto l’occhio ambizioso delle rispettive mamme.
Il rischio di ingaggiare una sfida tra mediocri è dietro l’angolo. Ed è micidiale: tra mediocri l’unico sentimento accettabile sarebbe la solidarietà. Nulla è più patetico di un sfida sgangherata tra pugili suonati.
Invece, la città di provincia ha in sé le caratteristiche per aizzarti a una trista faida tra cugini. Perché in una città come Bologna, è facile farsi notare. Vai sul giornale appena combini qualcosa di originale. Già a Milano la faccenda comincia a farsi più dura. Ma esistono anche lì radio libere, televisioni locali e pagine regionali ad aprirti il sipario di un protagonismo di periferia.
E lì, dopo aver sgomitato contro il nulla, brilli del tuo nulla, sotto quei patetici riflettori dai toni di neon. In un mondo dove tutto è riproduzione in scala minore. Dove la sola ricchezza è negli appellativi e qualifiche sperticati, fatue etichette su misere velleità. Un mondo di copie, ove ognuno si chiede come ci si debba comportare. Come farebbe un protagonista, nei panni suoi. Senza capire che già questa domanda è una qualifica di serie B.
A New York, grazie a dio, arrivare ai vertici è praticamente impossibile. Così nel suo gran numero di abitanti si diluisce la tua smania di protagonismo. Che sollievo! New York t’inghiotte indifferente senza nemmeno fare un ruttino. Nessuno si accorge di te: ti ci puoi sciogliere dentro, nelle sue luci multicolori.
Essere nessuno nella più grande città del mondo: eccola, la situazione più desiderabile. Anche se non fai nulla, ti senti partecipe di un disegno complesso e indecifrabile. Ci puoi vivere, allora. Vivere e basta.

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Vengono, con un sorriso dolce negli occhi, alla fonte del tuo carisma. Prima ti saggiano: una taratura delle sicurezze. Se vacilli ti azzannano. Giocano la sfida delle dolcezze. Devi dimostrarti diverso da loro. Altrimenti il disprezzo è già scritto. Il loro umido sguardo si fa glaciale segreteria telefonica. Tu le chiami per primo e sei morto. Non sei più un uomo. Sei una spalmatura elettromagnetica in un nastro di segreteria.
Ma la tua stoffa di sorriso non cede, e loro si flettono, prendono tempo. Sanno usarlo il tempo. Sono un sesso fiacco, la loro voglia sa attendere. Sembrano diventare tue adepte. Ti piazzano alto, sopra un piedistallo. Ma è solo per studiarti meglio. Ti amano stretto per tenerti d’occhio. Ti amano per diventare te. Tu, dio delle loro illusioni. Tu non deluderle. Se diventi loro, sei perduto. Sarai un dio rispedito all’inferno. Un dio elettromagnetico.

Donne, cavalcatrici dei tuoi sogni. Pronte a sponsorizzare ogni tua follia. Basta tu sia convinto e qualcuna ti seguirà. Ti sfoglierà come un libro rosa. Convinta di averti scritto lei.
Donne. Quelle che ti restano fuori e quelle che ce le hai dentro, da qualche parte di te. Che ti leggono e non si fanno decifrare. Tu le guardi, di fuori, ma loro ti vedono dentro. Dunque, le combatti in te, le cerchi, le vuoi.
Non le puoi prevedere. Sono loro che giocano te. Ti stanno dintorno e tu ci sei dentro. Sono esterne al tuo perimetro. Il loro sorriso è il riassunto del tuo. Ti è chiaro ora il significato della parola “com-prendere”?
Vorresti batterle in un sogno impossibile. Capirle, per liberarti della loro poesia. Decodificarle, per uscire dalla loro tela di seduzione. L’intelligenza lotta per la libertà, ma è sedotta dal rischio di perdersi. Si cinge di reti, di fantasie. Reclama la voluttà della sconfitta.
Aiutala a cessare di comprendere. La tua intelligenza ha diritto di amare.

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Mia madre mi ha sparato nella vita con una domanda tra le labbra: che cos’è l’uomo senza amore? Perché, con l’amore, invece? Questo sono io: la risposta.
Mi ha incollato un bacio sulla fronte come un francobollo e mi ha imbucato in questa vita: era l’unica cassetta postale disponibile.
Siamo qui stipati e continua ad arrivare gente. Aspettiamo tutti la levata. C’è chi la chiama Giudizio Universale. Sarà un giorno magnifico. Ci sono montagne di corrispondenza arretrata.
Per fortuna che abbiamo tutti lo stesso indirizzo: Mondo dei Sogni, terza nuvola a destra. In caso di recapito inesatto, rimandare al mittente. A uno qualunque. Tanto, siamo tutti bivaccati all’Hotel Illusione, restauri in corso, scusate i disagi: stiamo lavorando per voi.
Mi ha sparato nella vita convinta che i proiettili vadano lubrificati, così entrano meglio. Vaselina in sorrisi, ma doppia cartuccia di balistite incazzata. Maneggiare con cura: contiene un’anima. Piombo a perdere.

Ho capito di averla – l’anima – una mattina che mi sono svegliato con una riga di liquido in faccia. Ma non era una lacrima. Stava semplicemente piovendo. Nel mondo delle nuvole capita spesso. Basta un piccolo contrattempo. Tipo: sparisce uno che amavi. E’ andato via. In un altro posto, così orribile che non lo si può nominare. Dimentica, figliolo, dimentica.
Oppure lei sparisce per due settimane, ma la ritrovi abbracciata a un tale in un vicolo. “Scusa, è la vita. Mi odi vero? Restiamo amici”. La gente sceglie di morire in tanti modi diversi.
Ma poi tutto si asciuga. Sì davvero: il mondo è un luogo asciutto. Oceani a parte. Ma lì ci vanno a piangere i pesci. Quelli sono dei sentimentali, ci sguazzano nelle lacrime. Noi no, siamo di terraferma. Gente che ride.
Già, la risata. Quando la sfiga eccede di zelo, preme troppo sull’acceleratore, va in testa-coda. C’è un limite a tutto. Le catastrofi si presentano di solito una alla volta. Qualche volta si affollano. E’ naturale allora che a uno gli scappi di ridere. Vederle sgomitare, azzuffarsi tra loro per mandarti in rovina, non può che metterti di buonumore.

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