Laura era una ragazzina quando io me ne andai di casa perché ne avevo piene le scatole di render conto a mia madre; in quell’occasione Laura dimostrò l’inutilità della mia iniziativa, installandosi a casa mia.
Cominciò col dormirci qualche volta, ogni tanto. A quei tempi si portava dietro solo il beauty-case. Procedette portando con sé anche il cambio di biancheria e la camicia da notte. Quindi si impadronì di un cassetto per metterci le sue cosucce. Seguendo un preciso piano di invasione, occupò nell’ordine: un’anta dell’armadio, un secondo cassetto e il vano dietro la specchiera del bagno. Era discreta, lo riconosco, ma chi mi toglie il sospetto che fosse un’abile tattica per non scatenare la mia reazione?
Senza che me ne accorgessi, in pochi mesi aveva preso domicilio a casa mia, anche se in modo precario. Andava avanti e indietro con le borsine di plastica, come un’alluvionata. Continuò così per un paio d’anni.
La vita a due sarà romantica, ma non è il massimo della praticità. Laura aveva l’abitudine di leggere a letto, prima di addormentarsi. Io invece, o mi addormento nei primi minuti, o passo la notte in bianco. E poi c’era la scelta del canale tivù.
Mai una volta che avessimo le stesse preferenze. Col telecomando era una lotta all’ultimo sangue. Mi distraevo un attimo, e mi trovavo a seguire una telenovela.
Quando Laura mi comunicò che era meglio «regolarizzare» la nostra posizione, mi resi conto che vivevamo insieme già da due anni. Era stata così abile che non me n’ero accorto.
Questa storia della «regolarizzazione» mi lasciò perplesso. Voleva forse che l’adottassi? Be’, sì, tecnicamente era possibile. Avrei anche potuto sposare sua madre, dato che era vedova. No, la sua idea era un’altra: era che ci dovessimo sposare noi.
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