Categoria: L’aceto dei sette ladri

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Nel frattempo mi ero messo a studiare gli aromi da metterci. Qui non posso rivelarvi la formula: è un segreto che custodisco gelosamente! Mi sono un po’ montato la testa. Pensate che il marchio “Aceto dei sette ladri” l’ho addirittura depositato alla Camera di Commercio! All’inizio, dello storico aceto conoscevo soltanto il nome. Bisognava individuare la formula! Ma questa, da più di tre secoli, era caduta in oblio. Ai tempi del liceo, come ho già detto, la ricerca fu inutile. Per fortuna oggi c’è Internet, dove si trova tutto di tutto… e di più! Rovistando in giro per il mondo, tra biblioteche, ricettari e formulari galenici, di “formule originali” ne ha trovate una decina abbondante. Ce n’era una, in un antico trattato farmaceutico, custodito in una biblioteca spagnola, che mi pareva particolarmente affidabile. Mettendola a confronto con tutte le altre, mi pareva addirittura che fosse la “madre” di tutte le altre successive rielaborazioni. Era composta da oltre venti ingredienti. Vi comparivano spezie ed erbe officinali davvero improbabili, a immaginarsele in un aceto. Ma volevo fare le cose con scrupolo, a togliere avrei fatto in tempo.

Il reperimento di questi aromi non è stato agevole. Alcuni li ho trovati facilmente al mercato, altri ho dovuto guadagnarmeli andando in giro per erboristi, finché ne ho conosciuto uno davvero esperto, che mi ha dato una grossa mano. Sentirlo disquisire di erbe era musica per le mie orecchie. Di ogni erba officinale lui conosceva tutti gli effetti, ogni segreta intenzione. Ne era innamorato come un ragazzino e quando ne parlava gli si illuminavano gli occhi. Custodiva una varietà impressionante di foglie secche, semi e radici in uno scantinato dai mille profumi. Entrarci era un tuffo in un altro secolo, in un mondo di speziali e alchimisti. Naturalmente, la storia dell’aceto dei sette ladri lo aveva molto galvanizzato. Si era sentito scosso nel suo DNA e aveva talmente preso a cuore la faccenda da mettermi il sospetto che volesse fregarmi l’idea. Mi procurò invece spezie freschissime, ordinandone un paio che gli mancavano apposta per me, da un grossista tedesco specializzato nell’approvvigionamento di aromi da tutto il mondo. Questo fornitore li raccoglie dai quattro angoli del pianeta e li distribuisce agli chef di mezza Europa. Che attività affascinante! Un altro mondo sconosciuto mi si stava affacciando…

 

Alla fine della mia ricerca erboristica avevo finalmente confezionato una ventina di infusi diversi in altrettanti vasetti d’aceto. Tutti i giorni li andavo ad annusare per sentire che non facessero muffe, o chissà cos’altro. Ma col tempo, alcuni mi ero rassegnato a scartarli, onestamente il loro odore non aveva nulla di commestibile. Sembravano davvero fatti per mettere in fuga i topi di Tolosa. Per fortuna, invece, altri infusi erano così appetitosi da far venire la voglia di usarli da soli. Quando mi sembrarono ormai tutti pronti, li filtrai per interrompere la macerazione.

 

Qui è iniziato il lavoro più complicato: la messa a punto dell’antica formula. Ho cominciato a naso, ma con molta attenzione alle percentuali dei componenti: con una siringa da iniezioni facevo i “prelievi”, esatti al millimetro cubo, dalle mie boccette e li versavo in un’ampolla etichettata. A pranzo e a cena facevo grandi insalate per verificarne il gusto, oltre al profumo. Quante insalate e quante sniffate! Dopo un mese ero esausto fisicamente. Mi era persino venuta una fastidiosa irritazione ai polmoni che ho dovuto curare con un ciclo di aerosol al cortisone! Mi rincuorava però la costatazione che il mio “aceto dei sette ladri” stava migliorando di giorno in giorno. Volevo che avesse un sapore antico “dei tempi andati” e che non lasciasse trapelare di quali ingredienti fosse composto. Se un componente si evidenziava, stava a dire che prevaleva sugli altri e andava ridotto. Volevo infatti trasmettere un sentimento forte, indecifrabile come l’amore, ove i sensi si perdessero nel sapore di qualcosa che sfugge. Negli ingredienti e nella loro dose sarebbe stato il segreto: doveva inebriare e non essere decodificato, come il fascino di una bella donna…

 

Sono andato avanti per settimane: col tavolo della cucina traboccante di siringhe e boccette. Ogni giorno provavo formule nuove, talora prendevo strade sbagliate e dovevo tornare indietro. In questo lento progresso per incontrarci, io e l’aceto, talvolta avevo l’impressione che fosse lui a venire verso di me, altre, che si volesse nascondere. Come hanno sempre fatto le donne, ci risiamo…

 

Lo assaggiavo di frequente anche per un altro motivo: come ogni serio sperimentatore, dovevo prima testarlo su di me, anche a rischio della salute, per essere sicuro che non facesse male. Non avrei potuto davvero permettermelo. Avvelenare tutti i miei amici in un colpo solo sarebbe stata una vera catastrofe, me lo sognavo la notte, tra gli incubi…

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Dovevo farmi una cultura sugli aceti aromatizzati. Per prima cosa cercai su internet gli indirizzi di alcune acetaie, che nel modenese sono numerosissime. Ne scelsi alcune a caso, basandomi su dettagli insignificanti, così tanto per non tirare a sorte. Mi feci una mappa della zona e studiai un percorso per visitarle una per una. Quanta gente semplice e straordinaria che ho conosciuto! Chi mi regalava una preziosa boccetta, chi mi dava consigli “segreti”. In questo mio curioso pellegrinaggio ho riscoperto vivissimi alcuni valori che credevo scomparsi: l’amore per le piccole cose, gli antichi sapori, le tradizioni conservate come atto d’amore per i progenitori. Un mondo dove il tempo scorreva più umanamente, si poteva fare due chiacchiere e scoprirsi amici senza conoscersi. Un’atmosfera così famigliare che mi pareva d’essere in visita a lontani parenti.

Erano quasi tutti produttori di aceto balsamico, un aceto ben diverso da quello che avevo in mente. L’aceto balsamico è un aceto che risale ai tempi del Granducato di Modena ed è rimasto intatto nei secoli. Ora è persino inflazionato. L’ho trovato a Miami, a Buenos Aires, persino a Bangkok! Si fa partendo dall’aceto comune, che poi viene bollito col mosto e messo a stagionare per anni dentro botticelle di legni diversi. La prima botte è più grande, le successive sempre più piccole. L’aceto infatti negli anni stagiona e s’infittisce. Il legno delle botti gli conferisce quegli aromi speziati che lo caratterizzano. A me non piace tanto perché è zuccheroso, non acre. Non dico che sia cattivo, ma se non è acido, che aceto è? Io avevo in testa di fare invece un aceto diabolico, da levare il respiro…

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Fare aceti partendo dal vino è una cosa seria. Ci vuole la “madre”: un ammasso gelatinoso di microrganismi che trasformano l’alcol etilico in acido acetico, per dirla secondo la chimica. Un’operazione che richiede tempo, esperienza: non la si inventa. Io non avevo la presunzione di inventarmi acetificatore, volevo solo riscoprire un sapore antico, mettendo buoni aromi in aceti genuini. Se non fosse venuto fuori un condimento eccellente, sarebbe stato solo demerito mio. Per prima cosa, comperai le damigiane. Ce ne sono di fatte apposta, col rubinetto che pesca un po’ alto, per non tirare su il torbido che resta sul fondo. Ma l’aceto di base, dove l’avrei trovato? Di certo non al cash & carry. Ne volevo uno di vino doc, con quel sapore che ricordavo da ragazzino e che non avevo mai più ritrovato. Forse era giusto che iniziassi da Zocca, il paese dove era nato mio padre. Lì c’erano contadini e parenti, siamo nel modenese: l’aceto è una disciplina di vita.

Parto in auto con Gianfranco e due damigiane, convinto che non sarebbe stato facile, ma in un paio di giorni avrei potuto trovare quel centinaio di litri che mi servivano. Prima illusione. Mia cugina Graziella mi svelò che i contadini, di aceto, ne fanno pochissimo, solo quanto gli serve, mica per venderlo. Si ripeteva la solita storia che mi era già capitata coi capperi: le cose buone sono sempre difficili da reperire, sono prodotti fuori mercato: come l’amicizia disinteressata, la solidarietà senza fini propagandistici, come il regalo per pura riconoscenza che volevo fare agli amici miei…

 

Anche questa partenza sarebbe stata in salita. Per incoraggiarmi, Graziella mi regalò un bottiglione d’aceto di sua produzione e mi diede l’indirizzo di un parente che a suo parere faceva un aceto fantastico. Bene, incominciammo. La ricerca di quella casa colonica tra le montagne non risultò impresa facile, ma a forza di chiedere a tutti, alla fine la trovai: c’era il contadino che mi stava aspettando nell’aia. Ah, la cortesia senza fronzoli dei campagnoli: la Graziella gli aveva telefonato per avvisarlo e lui, sul tavolo della cucina, aveva già disposto un fiasco d’aceto da regalarmi, oltre a un salamino fatto in casa da farmi assaggiare, con il suo vino… purtroppo il vino dei contadini è perfetto per fare l’aceto, ma quanto a berlo… è torbido, aspro, con tutti i “sapori dell’uva”, dicono loro, e infatti, sa di graspo, di foglie, viticci: tutti sapori “naturali” tranne quello di vino come intendiamo noi.

 

Cominciò così il mio giro turistico per le montagne del modenese alla ricerca di aceti che, tra parentesi, non sono riuscito a pagare nemmeno una volta. Quando illustravo il mio disegno di riprodurre un aceto scomparso, da una ricetta del ‘600, trovavo sempre nuovi complici entusiasti di partecipare a quell’avventura. Ognuno era orgoglioso del suo prodotto, consapevole del fatto che era il migliore del mondo. E in effetti ho ritrovato sapori che credevo scomparsi per sempre nella mia memoria infantile. Sapori di buono, semplice, autentico, genuino. Ho passato settimane in giro per le montagne, in una specie di catena di Sant’Antonio tra amici degli amici, parenti dei parenti e sconosciuti produttori dei “migliori aceti del mondo”. È stata un’ avventura fatta di strette di mano ruvide, di accoglienze ospitali, di sortite nei pollai a cogliere uova fresche, salumi ruspanti, e… bottiglie di vino… purtroppo! Ogni volta tornavo a casa con alcuni fiaschi d’aceto che vuotavo soddisfatto nelle mie damigiane. Raggiungere la quantità necessaria è stata un’impresa titanica.

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A sessant’anni capita spesso di tornare sui ricordi per fare un consuntivo della propria vita, si suppone di essere ormai vicini ai tempi supplementari, se si vuole compiere qualche ultima azione è meglio sbrigarsi, perché l’Arbitro guarda spesso il cronometro e giocherella pericolosamente con il fischietto. Questa dell’aceto mi era ritornata in mente e, grazie ai tempi moderni, ora avevo ben altre fonti per scoprirne la storia. Feci una serrata ricerca sul WEB, passando nottate errabonde, rimbalzato da una biblioteca all’altra, ficcandomi talvolta nei vicoli ciechi di siti inesistenti. Ma, grazie alle ricerche, sono ora in grado di dirvi autorevolmente che l’Aceto dei Sette ladri fu inventato in occasione della peste di Tolosa, nel 1630, da alcuni ladroni che, approfittando della situazione, andavano a rubare nelle case degli appestati, indenni da ogni contagio! La leggenda vuole che si cospergessero il corpo con un portentoso aceto ottenuto per macerazione di segrete spezie e piante medicinali. Si pensava dunque che il suddetto intruglio avesse proprietà miracolose. Questo aceto fortissimo in realtà teneva alla larga ratti, topacce e pantegane, responsabili della diffusione del morbo. Ma la fama dell’aceto miracoloso si diffuse nel settecento, tanto che, stando a Casanova, lo si usava anche sulle frittate, presumo in una versione mitigata, visto che la formula originale, da me provata personalmente, si è rivelata così pestilenziale da tener lontani non soltanto i topi, ma ogni assennato gourmet. Della formula ce ne sono in giro parecchie versioni, una più speziata dell’altra. C’è chi tuttora la usa come antidoto per gli svenimenti femminili… ma ci sono ancora donne che svengono? Mi pare che ora prediligano far svenire noi maschi.

 

Comunque, dal mio punto di vista, era quanto necessario per riempire quella nicchia vuota nella mia cassetta di legno fatta a mano in quel di Erbusco. La bottiglietta giusta l’avevo già individuata tra i miei campioni. Avevo l’idea di fare una miscela di aceti eccezionali, nella giusta proporzione tra loro, per ottenerne uno così formidabile, da non sfigurare rispetto alla memoria di Casanova per un devoto seguace come me. Non era un’impresa semplice, ma era iniziata la più bella avventura.

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La prima volta che lo sentii nominare avevo solo quindici anni, era menzionato nientemeno che da Giacomo Casanova nella Storia della mia Vita, l’opera monumentale in 23 volumi, edizioni “Il Corbaccio” che mi leggevo di nascosto in classe, al liceo, tenendolo sulle ginocchia, coperto dal banco. Ne prendevo in prestito, tre volumi alla volta, alla Biblioteca dell’Archiginnasio e mi aveva affascinato a tal punto che non riuscivo a staccarmene nemmeno un giorno, anche se lo leggevo centellinandolo, per allontanare il triste pensiero di quel brutto giorno in cui sarei arrivato alla fine e mi sarei dovuto staccare dal mio beneamato. Quest’opera di Casanova è intrigante a tal punto che qualcuno le ha dedicato tutta la vita. C’è chi ha organizzato viaggi per mezza Europa lungo i percorsi compiuti da quel libertino, ci sono studiosi del Casanova che hanno letto almeno tre volte tutto quello che Casanova ha scritto, compreso gli epistolari e i taccuini ritrovati in Boemia nel castello di Doux. Io non sono arrivato a tanto, ma ho letteralmente vissuto nel settecento per un anno intero, in un’età pericolosa ad avere tali maestri. Ma non me ne pento, ne valeva la pena, se non altro per l’Aceto dei Sette Ladri…

Narra Giacomo Casanova, che la sera stessa della fuga dai Piombi si recò in un’osteria per gustarsi una frittata condita con quel fantastico aceto. Tutto qui. Non sarebbe venuta anche a voi la curiosità di saperne di più su questo condimento dal nome bizzarro? A me venne, ma mi arenai nella giovane età e nella mancanza a quei tempi di Internet. Pensai che fosse un nome astuto per indicare un aceto così forte, così canaglia, da venir prodotto solo con uve rubate ai legittimi proprietari. Tanto mi bastò, salvo cercare dove potevo se c’era la formula per riprodurlo personalmente. Alla biblioteca dell’Archiginnasio, sotto la voce “Aceto dei sette Ladri” non c’era un bel nulla. Fine delle mie fonti e conclusione delle ricerche. Per le mie frittate dovetti accontentarmi di aceti balsamici.

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