L’aceto

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Fare aceti partendo dal vino è una cosa seria. Ci vuole la “madre”: un ammasso gelatinoso di microrganismi che trasformano l’alcol etilico in acido acetico, per dirla secondo la chimica. Un’operazione che richiede tempo, esperienza: non la si inventa. Io non avevo la presunzione di inventarmi acetificatore, volevo solo riscoprire un sapore antico, mettendo buoni aromi in aceti genuini. Se non fosse venuto fuori un condimento eccellente, sarebbe stato solo demerito mio. Per prima cosa, comperai le damigiane. Ce ne sono di fatte apposta, col rubinetto che pesca un po’ alto, per non tirare su il torbido che resta sul fondo. Ma l’aceto di base, dove l’avrei trovato? Di certo non al cash & carry. Ne volevo uno di vino doc, con quel sapore che ricordavo da ragazzino e che non avevo mai più ritrovato. Forse era giusto che iniziassi da Zocca, il paese dove era nato mio padre. Lì c’erano contadini e parenti, siamo nel modenese: l’aceto è una disciplina di vita.

Parto in auto con Gianfranco e due damigiane, convinto che non sarebbe stato facile, ma in un paio di giorni avrei potuto trovare quel centinaio di litri che mi servivano. Prima illusione. Mia cugina Graziella mi svelò che i contadini, di aceto, ne fanno pochissimo, solo quanto gli serve, mica per venderlo. Si ripeteva la solita storia che mi era già capitata coi capperi: le cose buone sono sempre difficili da reperire, sono prodotti fuori mercato: come l’amicizia disinteressata, la solidarietà senza fini propagandistici, come il regalo per pura riconoscenza che volevo fare agli amici miei…

 

Anche questa partenza sarebbe stata in salita. Per incoraggiarmi, Graziella mi regalò un bottiglione d’aceto di sua produzione e mi diede l’indirizzo di un parente che a suo parere faceva un aceto fantastico. Bene, incominciammo. La ricerca di quella casa colonica tra le montagne non risultò impresa facile, ma a forza di chiedere a tutti, alla fine la trovai: c’era il contadino che mi stava aspettando nell’aia. Ah, la cortesia senza fronzoli dei campagnoli: la Graziella gli aveva telefonato per avvisarlo e lui, sul tavolo della cucina, aveva già disposto un fiasco d’aceto da regalarmi, oltre a un salamino fatto in casa da farmi assaggiare, con il suo vino… purtroppo il vino dei contadini è perfetto per fare l’aceto, ma quanto a berlo… è torbido, aspro, con tutti i “sapori dell’uva”, dicono loro, e infatti, sa di graspo, di foglie, viticci: tutti sapori “naturali” tranne quello di vino come intendiamo noi.

 

Cominciò così il mio giro turistico per le montagne del modenese alla ricerca di aceti che, tra parentesi, non sono riuscito a pagare nemmeno una volta. Quando illustravo il mio disegno di riprodurre un aceto scomparso, da una ricetta del ‘600, trovavo sempre nuovi complici entusiasti di partecipare a quell’avventura. Ognuno era orgoglioso del suo prodotto, consapevole del fatto che era il migliore del mondo. E in effetti ho ritrovato sapori che credevo scomparsi per sempre nella mia memoria infantile. Sapori di buono, semplice, autentico, genuino. Ho passato settimane in giro per le montagne, in una specie di catena di Sant’Antonio tra amici degli amici, parenti dei parenti e sconosciuti produttori dei “migliori aceti del mondo”. È stata un’ avventura fatta di strette di mano ruvide, di accoglienze ospitali, di sortite nei pollai a cogliere uova fresche, salumi ruspanti, e… bottiglie di vino… purtroppo! Ogni volta tornavo a casa con alcuni fiaschi d’aceto che vuotavo soddisfatto nelle mie damigiane. Raggiungere la quantità necessaria è stata un’impresa titanica.

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